Una banda di rapinatori e una rapina in banca che finisce male. Un impiegato dell’INPS frustrato e il suo dirigente che barcolla tra carrierismo e sensi di colpa. La criminalità organizzata romana, tra soldati che sono carne da cannone e boss senza scrupoli. Una periferia che sembra eterna almeno quanto la città di Roma che la ospita. Questi sono gli ingredienti de La giostra dei criceti, romanzo d’esordio di Antonio Manzini, pubblicato per la prima volta nel 2007 da Einaudi e ora riproposto da Sellerio.
Siamo nell’era pre-Schiavone della storia di Manzini, e si vede. La narrazione è un puzzle schizofrenico che sposta l’obiettivo da una situazione all’altra creando nel lettore un certo spaesamento che, però, l’abile prosa di Manzini gestisce alla perfezione e riconduce su un sentiero sicuro. Come un maestro al suo telaio, l’autore intreccia e riordina i fili della trama fino a comporre un tessuto (che con testo condivide la radice) omogeneo e saldo, il cui ultimo punto viene dato nel finale.
Sullo sfondo una Roma crudele, antiufficiale e lontana anni luce da quella città eterna e di eterna bellezza, anche se decadente. È la Roma delle periferie, del malaffare e della politica corrotta. È una Roma di sangue, contro cui combatterà negli anni successivi Rocco Schiavone. È la Roma che uccide sua moglie Marina; è una Roma che per troppo tempo non abbiamo voluto vedere e che Manzini ci sbatte in faccia come un ceffone appena svegli.
La giostra dei criceti è una lettura per stomaci forti, una lettura crudele, una lettura viscerale. Senza un eroe come Rocco Schiavone, nel mare di fango quale è l’universo narrato qui da Manzini, ci sentiamo perduti e senza rotta. Leggendo il romanzo dopo la saga Schiavone, il rude vicequestore trasteverino diviene fondamentale, non tanto per mettere ordine, quanto per poterci muovere in mezzo a questo caos infinito.
Pubblicato su Critica Letteraria il 7 agosto 2017.