“Il tempo che faceva”, di Aldo Boraschi

Cercate nella vostra memoria un momento particolare della vostra vita. Uno di quelli importanti, a cui attribuite un significato particolare.

Ecco, fatto? Bene.

Ora cercate di far mente locale su un dettaglio di quel momento: il tempo che faceva. C’era il sole? Pioveva? Era freddo, caldo, umido, secco? Non so voi, ma io difficilmente ricordo le condizioni metereologiche dei momenti passati, a meno che queste non abbiano avuto una certa influenza in questi momenti.

Tuttavia, come scrittore, il meteo è un elemento centrale della narrazione. Il tempo che faceva nelle mie storie ha un ascendente sui personaggi, sul loro agire e sul loro umore. A volte è il caldo soffocante, altre la nebbia, altre ancora l’umidità, o il freddo. Ci sono libri che hanno come titolo il tempo che faceva: il primo che mi viene in mente è Maccaia, di Bruno Morchio.

Non mi sono mai soffermato a riflettere sul perché il tempo che faceva nelle vicende narrate in romanzi e racconti sia così importante. Fino a quando non ho letto l’ultimo romanzo di Aldo Boraschi, Il tempo che faceva (Altre Voci Edizioni), in cui si racconta la storia di un piccolo paese rivierasco, Senzaunnome, che da decenni vive senza l’anagrafe, travolta da una delle tante frane che hanno colpito il nostro Paese in passato. Vivere senza l’anagrafe, significa vivere senza memoria: non si registra chi nasce, chi muore, chi stabilisce residenza o chi, invece, decide di andarsene. L’esercizio della memoria rimane, quindi, affidato alle persone che vivono a Senzaunnome e, fra tutti i suoi abitanti, se ne fa particolare carico Gelinda, la proprietaria del bar gelateria del paese. E Gelinda usa il meteo come uno dei tanti strategemmi per ricordare: associa un evento al tempo che faceva in quel momento.

Ma Gelinda, come tutti gli esseri umani, non può vivere per sempre. Ed ecco che interviene la giovane Beata, a cui Gelinda lascia in eredità 43 quaderni scritti a mano con gli eventi principali di Senzaunnome e oltre 700 libri. Le insegna anche a fare il gelato, perché Gelinda sa che la sua vita sta volgendo al termine e capisce che la piccola Beata può continuare il suo lavoro. Che solo superficialmente è quello di mandare avanti il bar di paese. Il vero mestiere di Gelinda, che Beata eredita, è quello di essere la memoria di Senzaunnome. Il passaggio di consegne tra Gelinda e Beata è anche la garanzia del fatto che la memoria del paese e dei suoi abitanti verrà conservata.

Con una trama sottile e molto lineare, Il tempo che faceva catapulta il lettore in una realtà onirica, dove passato e presente si intrecciano nei ricordi della protagonista Gelinda, e il futuro assume le fattezze della giovane Beata. Gli altri personaggi che ruotano intorno alle due donne rappresentano una variegata umanità che completa un quadro impressionista diffuso su quasi duecento pagine. Nessuno è caratterizzato con profondità, tutti sono solo abbozzati, ma allo stesso tempo il lettore ne può riconoscere il ruolo che hanno nell’equilibrio narrativo e che potrebbero avere nella realtà.

La compagna di stanza di Gelinda nella RSA dove vive, la signora Pesce, è il riflesso di un razzismo frutto più della paura del diverso che di una vera e propria convinzione ideologica. Il fratello di Beata, Primo, accompagna la sorella come un angelo custode facendogli da padre e da madre, nonostante sia più piccolo di lei e mentre i genitori sono impegnati a litigare tra loro. Il consigliere comunale Arduino “il cretino”, è l’archetipo del politico arrivista e ipocrita, che arriva a violentare la giovane Beata, le cui forme di donna esplodono con precoce irruenza ben prima di arrivare alla maggiore età.

Questi sono solo alcuni esempi dei tanti personaggi che popolano Senzaunnome e che, paradossalmente, gli danno un’identità precisa e riconoscibile. Nei salti temporali che il narratore si concede, infatti, il lettore si sente avvolto dalle atmosfere di questo paese che io colloco sulla costa ligure (perché Aldo Boraschi vive a Lavagna, in provincia di Genova), ma potrebbe benissimo essere la Rimini dei Vitelloni di Fellini, o quella della famosa canzone di De André.

Forse è questo che fa de Il tempo che faceva un romanzo di spessore: Senzaunnome è un luogo inventato, ma universale. Riconoscibile da tutti i lettori, oserei dire non solo italiani. In molte pagine avremmo potuto essere sulla spiaggia di Castelldefels, vicino Barcellona, per fare un esempio a me famigliare. Questa universalità, Senzaunnome la condivide con altri grandi luoghi di fantasia della storia della letteratura, a cominciare da Macondo, il villaggio in cui Gabriel García Márquez ambientò Cent’anni di solitudine. Sono luoghi dell’anima, i Senzaunnome della letteratura, in cui il tempo assume una dimensione circolare, e come le stagioni si ripete in maniera inesorabile.

Ma sono anche luoghi in pericolo d’estinzione. Tutti i Senzaunnome di questa terra hanno avuto la loro Gelinda: l’avvertenza di Aldo Boraschi, però, sembra essere che non tutti potrebbero avere la loro Beata, che permette alla ruota del tempo che faceva di continuare a girare.

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