Il mattatore dell’Old Bailey

Durante le ultime settimane, mentre mi recavo al lavoro, ho avuto il privilegio della compagnia di un vecchio avvocato del foro di Londra, un penalista dotato di un senso dell’umorismo fuori dal comune, esperto conoscitore dei versi di Wordsworth e Keats, ammiratore del sempiterno Sherlock Holmes e ispirato dal più intrigante Shakespeare. Sto parlando dell’avvocato difensore Horace Rumpole, figlio della sagace penna di John Mortimer, che forse è ingiustamente poco noto in Italia (si trova nel catalogo di Sellerio), ma che non è da meno di alcuni grandi autori del poliziesco inglese.

John Mortimer fa parte di quella specie di scrittore appassionato, amateur letterario e, forse per questo, di gran lunga più brillante di chi con l’arte di metter una parola dietro l’altra vive. Avvocato figlio d’arte, strenuo difensore dei diritti umani in patria, ha alternato toga e parrucca con la scrittura di racconti e romanzi, nonché di sceneggiati e copioni per la BBC, tra cui spicca la serie Rumpole of the Bailey, ispirata ai racconti omonimi.

Horace Rumpole è, appunto, il suo personaggio più noto. Protagonista di una serie di racconti, l’avvocato penalista è il principe dell’Old Bailey, l’alta corte britannica dove vengono dibattuti i casi penali più spinosi della Grande Londra. Strenuo difensore della presunzione d’innocenza, il suo motto è che un imputato non dovrebbe mai dichiararsi colpevole. Insofferente nei confronti degli abusi di potere, fa dell’etica del diritto alla difesa la sua stella polare, ma con dei limiti precisi: se il suo cliente confessa il reato, quello sarà l’unico caso in cui Horace Rumpole si dichiarerà colpevole, perché al contrario sarebbe come ingannare giudice e giuria consapevolmente.

Ciò che fa di Rumpole il mattatore dell’Old Bailey è, soprattutto, la sua oratoria che si serve di citazioni letterarie e uno spigliato humor inglese per salvarsi dalle situazioni più compromettenti. Nel raccontare i dibattimenti a cui partecipa il suo personaggio, Mortimer mette in scena quella guerra di narrazioni tra accusa e difesa che costituisce la parte centrale e più importante di un processo penale. Tuttavia, i racconti con protagonista Rumpole possono anche essere intesi come un piccolo manuale di etica deontologica; soprattutto in un’epoca come quella che stiamo vivendo, in cui i linciaggi di piazza sono all’ordine del giorno e, troppo spesso, un avviso di garanzia viene confuso con una sentenza di colpevolezza di terzo grado.

Bevitore di gin, frequentatore del bar Pommeroy all’uscita dal suo studio, Rumpole quando rientra a casa è accolto da Hilda, definita con sottile affetto come “colei che deve essere ubbidita”. E la vita matrimoniale del celebre avvocato procede con la stessa leggerezza, amore per la vita, ironia e sarcasmo con cui conduce una difesa per omicidio. L’aula del tribunale diviene quindi uno specchio in cui si rifrangono schemi, gerarchie ed emozioni della vita al di fuori di essa. Quella che trionfa nelle arringhe finali di Rumpole non è la giustizia accusatoria che divide il mondo tra il bene e il male in maniera netta; non è il riscatto della vittima o il trionfo di uno Stato il cui potere di coercizione può essere spaventoso: con Rumpole vince l’amara constatazione delle debolezze dell’essere umano, guardato con dolce ironia nella sua condizione terrena di povero diavolo, senza pregiudizi e senza scadere nel drammatismo, in un filone narrativo tipicamente inglese, che prende le mosse da Dickens (si potrebbe considerare Bleak House un antesignano del genere poliziesco?) per cristalizzarsi nei Racconti di Padre Brown di Chesterton e, perché no, confermarsi nei casi di Horace Rumpole.

Nella prima immagine, la copertina di uno dei testi di Mortimer pubblicati da Sellerio. Nella seconda, un’immagine raffigurante un dibattimento all’Old Bailey d’inizio XIX secolo.

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